Centro antiviolenza per donne in situazione di abuso

Il 25 novembre è il giorno internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, giornata ufficializzata anche dall’ONU.

I dati in merito in Italia non sono confortanti: da un’analisi effettuata dalle organizzazioni che lavorano sulla violenza – perché in Italia non esiste un osservatorio nazionale su questo tema, e i dati ufficiali in materia sono fermi a un’indagine Istat del 2006 – pare i femminicidi siano in aumento di anno in anno. Il dato include le morti accertate, quelle di cui si è parlato sui giornali, per intenderci, ma non si è a conoscenza di quante potrebbero essere quelle passate sotto silenzio. È invece in calo il numero di omicidi di uomini sugli uomini.

Proprio lo scorso 25 giugno alle Nazioni Unite di Ginevra, Rashida Manjoo, Special Rapporteur delle Nazioni Unite per il contrasto alla violenza sulle donne, nel corso della sua dichiarazione ha parlato dello stato delle cose in Italia, affermando che:

“Un rapporto sul femminicidio basato sulle informazioni raccolte dai media indica che nel 2010 ben 127 donne sono state uccise da uomini. Nel 54% dei casi, il responsabile era un partner o ex-partner e solo nel 4% dei casi l’aggressore era uno sconosciuto. Il 70% di tutti i casi di femminicidio ha riguardato donne italiane, e nel 76% dei casi anche gli aggressori erano italiani (al contrario di quanto si crede comunemente, ovvero che tali crimini siano commessi da stranieri, un luogo comune generalmente rafforzato dai media)”.

Nonostante l’Italia sia il Paese europeo con meno Centri Antiviolenza, ultimo assieme al Messico anche a livello mondiale, esistono fortunatamente alcune realtà che si occupano di sostenere le donne vittime di violenza. Fra queste D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), un’associazione che raccoglie al suo interno 60 fra Centri Antiviolenza e Case della donna, che affrontano la violenza maschile sulla donna in un’ottica di genere. Essere parte di D.i.Re implica seguire una serie di norme e pratiche in linea con le leggi Europee.

A Trento il Centro Antiviolenza è nato da un’iniziativa del Coordinamento Donne di Trento. Dieci anni fa alcune delle donne che facevano parte di questo gruppo, e che avevano delle competenze adeguate, hanno pensato di attivare un telefono antiviolenza. Il progetto doveva avere una durata di 3 mesi, e alla fine è rimasto attivo 5 anni, finché, nel 2002, l’associazione ha ricevuto dei finanziamenti dalla Provincia Autonoma di Trento per il progetto del Centro.

“Dalle 80 donne che si sono rivolte a noi nel primo anno, nel 2011 siamo arrivate a 223. E abbiamo accolto anche 63 persone che ci hanno contattate per chiedere un aiuto su come muoversi, essendo familiari o amici di donne vittime di violenza”. 

A raccontarmi del centro, commentando i dati, è la responsabile del Centro Antiviolenza di Trento, la dott.ssa Barbara Bastarelli. 

“Di 223 donne che si sono rivolte a noi, il 90% sono vittime di un marito, un partner o un ex partner. 195 di loro (l’87,4%) venivano per la prima volta.

168 sono italiane, più della metà delle quali è occupata, spesso in quelle che si possono definire “buone occupazioni”: insegnanti, infermiere, impiegate, ecc…

E anche il 90% degli uomini violenti è occupato: si tratta di uomini di qualunque provenienza sociale, economica e culturale, chiaro indice della trasversalità del fenomeno.

Il fatto che molte donne siano occupate le rende potenzialmente più indipendenti da un punto di vista economico, ma spesso il reddito prodotto dalla donna è gestito dall’uomo.

La violenza di genere, infatti, non si manifesta solo a livello fisico (sebbene sia la modalità più comune sotto forma di schiaffi, pugni, pizzicotti e mani al collo), ma anche attraverso privazioni economiche, e maltrattamenti psicologici.

La soluzione all’apparenza è semplice: allontanarsi dall’uomo violento per tornare alla libertà.

Ma le donne vittime di violenza devono fare i conti con la loro stessa visione distorta della realtà, che le vincola. E soprattutto chi ha una cultura o una posizione socialmente più elevata, spesso ha più difficoltà a esternare la violenza portando avanti una denuncia o dichiarandola a un avvocato. Queste donne subiscono maggiormente i vincoli legati a un pregiudizio sociale che in qualche modo esse stesse sostengono.

Per meglio comprendere la difficoltà a compiere il difficile passo di lasciare il proprio partner in situazioni di questo genere, è opportuno fare un passo indietro e capire quali siano i meccanismi del ciclo della violenza.

Partiamo con il mettere in chiaro subito che le donne non si innamorano mai di un uomo violento. La violenza èdifficilmente identificabile, e solitamente si manifesta a rapporto consolidato, spesso durante la prima gravidanza.

Ai primi schiaffi o pugni seguono solitamente le scuse dell’uomo, che promette che la cosa non succederà mai più.

 E la donna, che vive questo atto con un senso di colpa (atteggiamento spesso tristemente favorito anche dalle persone cui la donna si rivolgere per cercare aiuto, e che consigliano di restare accanto al compagno, preferendo non vedere la violenza), cercando una giustificazione per l’atto violento dell’uomo, gli crede e lo perdona. Ma gli episodi di violenza si susseguono, sempre più ravvicinati, fino a diventare un’abitudine.

L’uomo che manifesta a violenza inizia a comandare in modo sottile, e la donna è confusa.

Siamo socializzate a temere la strada di notte da sole, per il rischio di incontrare uno stupratore (evenienza che avviene per 1% dei casi, nella realtà dei fatti), e non ad avere paura dell’ambiente di casa e del nostro compagno. È anche questo stato di confusione a far sentire in colpa la donna. Donna che spesso è sola, in parte perché – subendo violenza psicologica – è costretta dal partner che vuole rafforzare il proprio dominio ad allontanarsi dagli affetti, in parte perché si auto isola per il senso di vergogna. 

Da dove deriva l’atteggiamento violento?  In Italia solo dal 1975, con l’approvazione del nuovo diritto di famiglia, viene abolita l’autorità maritale, che legittimava il marito a fare uso di “mezzi di correzione e disciplina” nei confronti della propria moglie, inclusa la possibilità di usare su essa la violenza.

E siamo addirittura nel 1981 quando scompaiono dal nostro codice il “delitto d’onore” – che scontava notevolmente la pena di un marito che avesse ucciso la moglie per infedeltà – e il “matrimonio riparatore” – modo per evitare la condanna da parte di chi avesse commesso uno stupro. La violenza dell’uomo sulla donna è quindi in parte frutto di questi retaggi, ancora tanto vicini a noi, e che, drammaticamente, ancora si perpetuano anche nei più giovani. L’uomo violento è consapevole di commettere reato, ma lo ritiene lecito. Ne è prova il fatto che l’uomo che picchia la compagna lo fa senza testimoni, e in parti del corpo non visibili.

E alla violenza seguono minacce di fare di peggio la volta successiva se la donna si rivolgerà all’ospedale o denuncerà l’avvenuto.

Ma chi sono le donne che si rivolgono al Centro Antiviolenza?

“Vengono donne di tutti i generi. Anche giovani, spesso già ai primi segnali di violenza del partner. Ma è difficile farle allontanare: la promessa di cambiare da parte del compagno è un argomento forte da contrastare. Le compagne credono che le cose cambieranno realmente.

Che tipo di supporto viene dato alle donne che si rivolgono al centro?

Il compito del Centro antiviolenza è quello di far capire che cosa la donna stia vivendo, e che rischio stia correndo a restare con quel partner. Certo, il percorso è lungo.

La violenza provoca un trauma che, nella mente della donna, viene smussato. Al Centro cerchiamo di far rivivere la violenza parlandone, in modo da permettere alle donne di leggere correttamente la situazione in cui si trovano.

Le aiutiamo poi a muoversi per trovare un lavoro se non lo hanno, a cercare un alloggio, e, in caso di denuncia, testimoniamo ai processi (il Centro Antiviolenza è testimone qualificato per i processi). Facciamo foto alle donne ed alle violenze subite (servono in caso di processi in tribunale), e, se serve, le indirizziamo a qualche struttura.

E capita spesso che le donne denuncino i compagni violenti?

La denuncia non è lo scopo primario del Centro Antiviolenza: bisogna considerare che spesso l’uomo violento è padre dei figli della vittima di violenza, quindi la donna tende ad allontanarsi senza denunciarlo. È una sua libertà. E comunque la denuncia non protegge nell’immediato la donna. L’uomo spesso non ne è neppure a conoscenza: la trafila delle indagini dura circa 6 mesi, dopo i quali può procedere o venire archiviata.

Altro compito del Centro è quello di aiutare la donna ad allontanarsi in sicurezza, ponendo dei paletti. L’allontanamento è da valutare in base al grado di pericolo che la donna sta realmente correndo. Compito non sempre semplice, poichéper la donna ciò che dice l’uomo è spesso il Verbo: per questo bisogna aiutarle a capire quando ci sono situazioni di vero pericolo e quando no.

E l’aiuto maggiore che possiamo dare, in questo senso, è farle parlare con altre donne che sono riuscite a uscire da una situazione simile senza pericolo. Ascoltare queste testimonianze permette loro di procedere con più decisione in questo progetto di allontanamento.

Ma è fondamentale che ci sia fiducia in chi segue questo percorso a livello professionale, e seguire i consigli che vengono dati.

Solo così la donna non rischia. Il pericolo maggiore, ancora una volta, è che si lasci convincere dalle parole dell’uomo, che si infiltrano nella sua mente. Se la donna lascerà che questo avvenga, il Centro Antiviolenza non può garantirne la sicurezza.

Perché, come la stessa Rashida Manjoo ha ricordato nel suo discorso alle Nazioni Unite:

“Più che una nuova forma di violenza, gli omicidi di genere sono la conseguenza estrema di altre forme di violenza nei confronti delle donne. Tali omicidi non sono incidenti isolati, che avvengono improvvisamente e inaspettatamente, ma sono l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine ad una serie di violenze continuative nel tempo”.

Il Centro Antiviolenza è in questo periodo impegnato con D.i.Re nella promozione della petizione pubblica Mai piùviolenza sulle donne, che vede come primi firmatari dell’appello Riccardo Iacona e Serena Dandini:

“Ci appelliamo al Governo italiano, al Parlamento e alla società civile, affinché in tempi brevissimi sia ratificata nel nostro ordinamento, la Convenzione del Consiglio d'Europa firmata ad Istanbul, che vincola i Paesi aderenti ad azioni ed iniziative importanti di contrasto alla violenza sulle donne, sia finalmente attuato il Piano Nazionale Antiviolenza e si sostengano con finanziamenti adeguati, tutti i centri antiviolenza aderenti alla Rete Nazionale. 

Le violenze sulle donne e i feminicidi non sono un destino inscritto nelle vite delle donne, ma sono cronache di morti annunciate nel vuoto politico e nel silenzio di un Paese che sembra non avere più coscienza. “